

Poco fuori Sarajevo c’è un tunnel. A turni ininterrotti di otto ore, fu costruito dagli assediati bosniaci a partire dal gennaio del 1993 per collegare la città, completamente assediata dalle forze serbe, all’unica area neutrale della zona istituita dalle Nazioni Unite: l’aeroporto.

Gli 800 metri di galleria permisero agli aiuti umanitari di raggiungere la città e alla popolazione di fuggire, ma costituirono anche l’unica via attraverso cui i resistenti all’assedio poterono procurarsi le armi necessarie per contrastare gli attacchi dell’esercito serbo.
Dal tunnel, scavato all’interno del cortile di una casa privata, la via principale per raggiungere il centro della città è Zmaja od Bosne, la “via dei cecchini”, un’enorme strada che si fa largo fra le colline su cui si appostavano i soldati serbi pronti a massacrare chiunque tentasse di attraversarla.
Gli edifici di Zmaja od Bosne portano ancora le cicatrici della guerra. I buchi di mortaio decorano ancora, con un macabro motivo, i muri dei palazzoni, l’asfalto dei marciapiedi, le pareti dei musei e degli alberghi. Alcuni di questi buchi sono stati riempiti di vernice rossa, le “rose di Sarajevo”, altri decorati con stelle; la maggior parte ancora vuoti e nudi, a ricordo di un conflitto troppo vicino per essere dimenticato.
Eppure, una volta percorsa la “via dei cecchini”, la strada che ora brulica di tram, macchine e turisti diretti in centro e che meno di vent’anni fa rappresentava il teatro più nero della tragedia di Sarajevo, i segni della guerra si fanno meno evidenti, fino a nascondersi, a perdersi tra le moderne e colorate strade della Bascarsija.
Man mano che ci si avvicina alla “piazza dei piccioni”, cuore del quartiere turco e della città stessa, le cicatrici scompaiono dai muri e rimangono confinate nell’anima delle persone; il “turismo di guerra” non trova spazio in Ferhadija Saraci, nei dedali del quartiere intorno a Marsala Tita in cui si fondono e convivono chiese e moschee, bazar e negozi di telefoni, artigiani e grosse firme internazionali.
Fuori dalla periferia della città, i resti della guerra vanno cercati con attenzione, non si corre il rischio di scontrarcisi per caso.

In quindici anni Sarajevo ha deciso di rinascere, di tornare ad essere la città olimpionica del 1984, il motore della Bosnia, la moderna e vitale capitale di prima. Non ha dimenticato l’assedio, non lo occulta come una vergogna, non lo vive come un modo per ottenere pietà e commozione: Sarajevo ha deciso di ripartire proprio da quello, di ricordare a tutti quanto ha vissuto ma di farlo con dignità ed entusiasmo verso il futuro.
È una città viva, Sarajevo. Una città in cui il fumo dei narghilè, alla sera, riempie i tavoli dei bar, in cui il viavai di persone occupa negozi e musei, i cui gli artisti suonano per strada e le donne si fermano davanti alle vetrine a guardare manichini con chador e abiti alla moda; in cui i ragazzi affollano le strade, di notte, come mai potrebbe accadere in città a noi molto più vicine e che hanno vissuto la guerra nella lontana prima metà del secolo scorso.
C’è un tunnel, poco fuori Sarajevo. Un tunnel che ha trasportato viveri, persone, animali e armi. Armi che servivano ai partigiani di un popolo per resistere ad un oppressore, armi di difesa, mai di attacco.
Ora, quel tunnel, non è solo un museo: è un simbolo che ricorda la ciclicità della storia. Un tunnel che riporta alla mente altre gallerie, scavate da persone di etnia diversa ma di uguale coraggio, di uguale fatica e paura; tunnel che collegano Gaza – nuova Sarajevo – all’Egitto, nuova zona franca per un uguale popolo assediato.

Sono gallerie scavate con lo stesso scopo, ma dovranno passare ancora molti anni prima che si trasformino in museo; prima che la gente le visiti, si renda conto e si indigni come accade oggi a Sarajevo; prima che vengano considerate espressione estrema di un popolo disperato e non stratagemma finalizzato al terrorismo.
Ma forse, quando tutto ciò accadrà, anche Gaza potrà tornare ad essere libera e viva, consapevole delle sue cicatrici ma proiettata verso un nuovo futuro di pace.
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