LIBANO: Il racconto di Vittorio Arrigoni
ESTERO, Interviste / / Gen 15, 2011

Sei di ritorno dal Libano, ma questo è solo l’ultimo dei tuoi viaggi in Paesi esclusi dalle agenzie turistiche per i loro tour a cinque stelle. Hai cominciato con un campo di lavoro, cosa è scattato poi?
Sono più di dieci anni che dedico le mie vacanze a questo tipo di viaggi, lo posso fare perché sono riuscito a far capire ai miei datori di lavoro l’importanza di tali esperienze.
Il mio è stato una sorta di cammino esistenziale in evoluzione, iniziato con un campo di lavoro a vent’anni. Era un momento difficile della mia vita, e anche questo mi ha spinto a partire dieci giorni in Croazia con l’associazione Manitese per portare aiuti umanitari durante la guerra. Questo viaggio ha fatto scattare qualcosa in me; sentivo che mi stavo arricchendo, finalmente avevo trovato quella solidarietà umana che il freddo individualismo della nostra società ha cancellato.
Ho deciso di continuare a mettermi in gioco anche per soddisfare la mia morbosa curiosità verso la “differenza”… parto sempre dal presupposto che ogni straniero ha qualcosa da insegnarmi. Successivamente sono stato tre mesi in Perù e nell’est Europa e negli anni sono passato dal terzo mondo alle zone di guerra; da lavori manuali come ristrutturare ospedali e alloggi per senzatetto sono passato a un impegno di volontariato diverso.
Nell’estate 2006 ho fatto l’osservatore di diritti umani durante le prime elezioni democratiche in Congo.
Precedentemente ero stato più volte in Palestina, svolgendo interposizione non violenta in difesa dei civili palestinesi esposti quotidianamente ai crimini di guerra dei soldati israeliani. Sono stato espulso dalla Stato di Israele per la sola colpa di aver voluto partecipare ad una Conferenza di Pace organizzata dal figlio di Martin Luther King a Betlemme: per questo mio attivismo pacifista sono stato arrestato e torturato. Per Israele io non posso più tornare in Palestina, che per me rappresenta una seconda casa ormai, avendo lasciato laggiù quella che definisco la mia “famiglia atavica”. Non potendo più trovare la Palestina in Palestina, a settembre ho deciso di raggiungere, con il mio amico Gabriele Corno, Leila, una cara amica che era a Beddawi, in Libano, a lavorare come volontaria in una clinica che assiste i profughi palestinesi.
Parliamo della tua esperienza nel campo profughi…
A Beddawi erano concentrati migliaia di profughi (in tutto cinque milioni in Libano ndr).
Molti erano in fuga da Nahr el Bared, altro campo profughi in cui, tre giorni prima del mio arrivo, era scoppiato uno scontro. Il centro, che ospitava 20mila palestinesi, è stato raso al suolo nella battaglia fra i militari libanesi e alcune centinaia di guerriglieri forestieri infiltrati fra i palestinesi.
L’unica colpa degli ospiti del campo è stata quella di non segnalare questa intrusione, ma ciò non giustifica l’atto dell’esercito. Nel campo ho incontrato tutta la disperazione del popolo palestinese, persone che da sessant’anni aspettano di tornare in Palestina; ero disposto a fare qualunque cosa per loro.
Nel campo ho lavorato prevalentemente come muratore all’unica clinica del centro, una struttura sanitaria dove lavorano solo cinque dottori per oltre 40mila persone. Più dei mattoni posati per ingrandire la clinica, importante è stato il messaggio che ho cercato di portare. L’isolamento è la morte della speranza e per i profughi vedere che un occidentale si sporca le mani per loro, vuole conoscere le loro storie per poi tornare in Italia a raccontarle, è stato importante.
Un ragazzo palestinese mi ha anche consegnato una lettera, in arabo, per il Papa. Mi ha chiesto di portagliela, perché pensa che se lui intervenisse le cose cambierebbero. Sicuramente gliela spedirò.
Qual è la situazione dei palestinesi segregati nei campi profughi? I libanesi come vedono i rifugiati?
I palestinesi in Libano non possono svolgere libere professioni perché una legge razzista glielo impedisce. Si occupano perciò delle mansioni più umili, ma la maggior parte di loro è sostenuta da aiuti internazionali. I palestinesi sono persone che i libanesi non si sforzano di capire perché perlopiù schiavi di razzismo e diffidenza.
A Tripoli ho incontrato estremisti libanesi che considerano pericolosi i rifugiati senza aver mai messo piede in un campo profughi, ma anche i cristiani più moderati hanno paura. Si teme un popolo che ha sete di giustizia, hanno il terrore che i palestinesi vogliano conquistare il Libano.
L’ultima soddisfazione di questo viaggio, dopo le tante persone amichevoli e generose incontrate, è stato portare un ragazzo libanese nel campo palestinese per mostrargli cosa la gente si rifiuta di conoscere. Uscito da lì, il ragazzo ha ammesso i propri pregiudizi e si è convinto che l’unica cosa che vogliono i palestinesi sono diritti.
Conoscere è il primo passo per una soluzione, per questo non mi stancherò di continuare a portare umilmente la mia solidarietà a coloro che soffrono, specie i dimenticati, dovunque essi siano.
Dopo gli scontri dell’estate 2006 il Libano è scomparso dai nostri telegiornali. Qual è la situazione del paese?L’Italia sta veramente compiendo una missione di pace?
L’esercito non porta mai pace, ma la presenza italiana in Libano è vista in maniera positiva in quanto si pensa che metta un freno all’invasione israeliana. Si sente comunque nell’aria il clima di una possibile guerra di Israele contro la Siria o il Libano, per la rivincita dell’ultima sconfitta subita.
Dopo aver visto gli orrori di cui sono capaci gli uomini nei confronti dei loro simili, riesci ancora a credere nell’uomo?
Nei campi profughi ci sono uomini che dal ’48 non possono tornare nella loro terra. Dal mio punto di vista solo una piccola parte dei palestinesi potrà davvero tornare nella propria patria ma tutti continuano a sperare e a mantenere vive le proprie radici. Questo mi dà molta speranza, anche se penso che un cambiamento vero potrà esserci tra due o tre generazioni, cioè quando anche i libanesi capiranno che è fondamentale dare pari diritti a questo popolo.
E tu, Vittorio, per cosa urleresti ¡NO MÁS!?
¡NO MÁS! all’indifferenza, ¡NO MÁS!a chi se ne frega.
Il poeta spagnolo García Lorca diceva che il pianto che sentiva fuori dalle finestre non lo faceva dormire, ma non bastava chiudere le finestre per dimenticarlo, perché sapeva che il pianto continuava oltre il vetro. È il rumore di queste lacrime che non posso smettere di sentire, che mi spinge a continuare i miei viaggi.
di Marco Besana e Ilaria Brusadelli
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