Ho deciso di dedicare questo articolo a Marcella de Palma, telegiornalista morta l’8 marzo 2000 di tumore. Aveva poco più di 40 anni ed aveva dedicato il suo lavoro, con passione, a documentare la guerra, la mafia.
MARCELLA DE PALMA scomparsa l’8 marzo 2000, prima di essere stata la popolare presentatrice del programma «Chi l’ha visto» è stata una delle giornaliste più importanti del programma «Mixer» un rotocalco di attualità politica, culturale e di spettacolo.
«È stata una grande amica, una grande madre – ha dichiarato Gianni Minoli, suo collega a Mixer che ha dedicato la puntata dell’8 marzo 2008 di “La storia siamo noi” a lei – Una grande compagna per chi ha avuto la fortuna di lavorare con lei. Una donna antica e moderna insieme che ha lasciato una profonda traccia di sé».
Nata a Bari nei 1957, cominciò a lavorare in Rai nel 1978 e arrivò alla redazione di Mixer qualche anno dopo dall’inizio del programma.
«Nessuno si aspettava una collaboratrice con il suo aplomb, di provenienza di una così importante famiglia – ha dichiarato un suo collega – Improvvisamente si scopre una giornalista d’assalto che va in giro, nel fango, ne fa di tutti i colori e riesce a tirar fuori cose che nessuno di noi era riuscito a fare con l’intensità, l’impegno e la dedizione di Marcella».
Marcella si è dedicata ai servizi più diversi: nel 1992 sull’Aspromonte è andata alla ricerca dell’ultimo covo del sequestrato Antonio Gallo. Con il suo cappellino rosa e kway blu si è calata in una “tana di lupo” strettissima per raccontare cosa ha subito Gallo. È stata in Somalia durante la sanguinosa guerra civile, in Cecenia durante il primo anno di guerra con la Russia, sulle pericolose vie della droga dall’Iran alla Bolivia, dalla Malesia al Sudafrica.
Marcella dalla Bosnia (1993-1994) Nel 1994 Marcella era in Bosnia con l’operatore Maurizio Carta. Arrivarono a Mostar proprio dopo che tre colleghi della Rai di Trieste (il giornalista Marco Luchetta, gli operatori Alessandro Ota e Dario D’Angelo) erano stati colpiti da una granata. Marcella e Maurizio passarono davanti alla loro macchina con la scritta Rai, chiedendosi come mai ci fossero dei loro colleghi.
Poi la scoperta e il «dovere di cronaca».
«In realtà lei non riusciva a fare il servizio, stava malissimo- ha ricordato Maurizio – aveva più voglia di piangere che di parlare. Al ritorno tutti la criticarono: “ma guarda la lacrimuccia, che fintona!”».
«Erano le notizie che seguivano lei – ha detto il regista Sergio Spina – andava in un posto e lo bombardavano…».
L’anno prima era già in Bosnia e sempre per Mixer, aveva realizzato il servizio: «Lontano da dove. La guerra in Europa» in cui raccontò cos’era la pulizia etnica sulla strada per Sarajevo: «Case morte e case vive. Morte quelle dei musulmane, vive quelle dei serbi».
Percorse con il suo operatore quello che veniva chiamato il “circuito della morte”, una strada che divideva la Sarajevo serba da quella musulmana, quindi sotto le mire di entrambi gli schieramenti. «Il problema di lavorare insieme – ha detto Maurizio – era quello che lei voleva documentare tutto ciò che vedeva».
«Il limite del suo approccio passionale stava proprio nella passionalità – ha detto il reporter Amedeo Ricucci – se ti appassioni troppo non sei in grado di vedere i contorni. È come il saggio che indica l’albero e il cretino non riesce a vedere al di là dell’albero la foresta. Marcella si innamorava dei singoli alberi e a volte non riusciva a vedere la foresta. Ma si innamorava di talmente tanti alberi, singolarmente, uno per uno, che alla fine l’effetto di insieme riusciva comunque a darlo».
Marcella dal Kazakhstan (1996) In questo stato, il Kazakhstan, di cui non sappiamo nulla attraverso la televisione, Marcella ha realizzato un documentario intervistando chi porta sul viso, sulla pelle, le conseguenze degli esperimenti atomici sovietici a partire dalla seconda metà del Novecento.
470 piccole Hiroshima taciute durate quarant’anni.
Scene raccapriccianti, forti. Una ragazza di 16 anni con il viso completamente sfigurato, una donna di 50 anni alta come il nipote di 4.
Il giornalista Ettore Mo, poco prima di questo servizio, aveva scritto sulle colonne del Corriere della sera: «Ci sono bambini che hanno paura, non sanno se sono vivi o se sono morti. Ma certamente sperano che tutto finisca in fretta. Perché non hanno sete e non hanno fame. Il loro cervello non funziona. E non sanno perché sono venuti al mondo».
Il poligono nucleare era in una città fantasma, non segnata sulle cartine. Marcella l’ha raccontato con la giornalista Milena Gabanelli. Tutti prima di partire avevano consigliato loro di non mangiare nulla, ma come offendere chi le invitava a pranzo in una campagna contaminata da radiazioni?
Non è difficile capire perché Marcella sia morta di tumore ai polmoni a 43 anni.
«Non ho mai visto Marcella scherzare su ciò che vedeva – ha ricordato Maurizio Carta – se qualcuno lo faceva s’indignava. Ma talvolta, in questo mestiere, il cinismo è un modo di diluire la tensione, di sdrammatizzare».
«Era talmente viva che aveva bisogno di assorbire tutto quello che la vita le offriva; aveva un cuore enorme e voleva trasmettere tutti i sentimenti che provava – ha raccontato Sveva Sagramola – se prendeva un impegno con qualcuno di cui raccontava la storia, quest’impegno lo voleva mantenere. Marcella accettava con molta fatica che gli autori, per esigenze di programma, comprimessero, tagliassero i suoi pezzi. Lo viveva come un tradimento nei confronti a chi aveva coinvolto».
Marcella dal Ruanda (1995) Nel 1995 realizzò il servizio «Se questo è un uomo» con Peppe Vitale. Furono i primi europei a entrare nella città di Gitarama con le telecamere per documentare la situazione delle carceri dove venivano rinchiusi i condannati per genocidio.
In un carcere per 400 persone venivano rinchiusi 7mila detenuti in attesa di giudizio. In nove mesi erano morte più di 900 persone, secondo i dati raccolti da Medecins sans frontières soprattutto per fratture dovute al poco spazio, per dissenteria o per problemi respiratori. La malattia peggiore diffusa nel carcere era quella dei piedi gonfi che portava a ferite, setticemia, putrefazione, amputazione.
Marcella raccontò il fango sotto le sue scarpe, l’odore insopportabile del calderone di fagioli nel cortile. La gente faceva a turno per sdraiarsi ogni tre, quattro giorni. Le immagini del servizio sono sconvolgenti, come le parole della voce di Marcella che in studio raccontava quello che aveva visto.
«Ci sono solo 28 latrine per 7mila persone in cui spesso alcune persone si mettono a dormire».
E alle sue parole, che meglio di me possono dire chi era Marcella, lascio le ultime righe di questo articolo.
«Respiriamo con la bocca per non vomitare. Non c’è luce all’interno, siamo in due in mezzo al carcere. Continuo a ripetermi che non ci succederà nulla. Anche se penso che sono donna, bianca, diversa. All’improvviso i carcerati si mettono a cantare. È un canto bellissimo. L’emozione stringe la gola. L’inferno dev’essere così, eppure noi siamo testimoni di un privilegio. Quello di conoscere l’inesauribilità dell’animo umano che riesce ad innalzarsi in una spiritualità immensa. L’unica via, forse, di uscire dal proprio corpo mentre l’anima resiste. Per scoprire fino a che punto può essere forte la voglia di vita. Fino a che punto si può continuare a sentirsi individuo, a pensare di avere una dignità. Ora non c’è più paura in me. Solo immenso stupore».
Purtroppo della giornalista è difficile trovare molti documenti, per esempio sui suoi reportage in Cecenia. Per saperne di più, e soprattutto vedere davvero come lavorava Marcella, vi consiglio di vedere lo speciale su di lei girato da “La storia siamo noi” (http://www.lastoriasiamonoi.rai.it)
di Ilaria Brusadelli
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