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Ciò che resta

ALGO MÁS, News / by Pietro Crippa / Gen 17, 2012

Il 17 Gennaio 1966, un bombardiere B-52 si scontra con un aereo da rifornimento sui cieli della Spagna, sganciando tre bombe all’idrogeno da 70-kilotoni nei pressi della cittadina di Palomares e un’altra in mare. Delle quattro testate nucleari a bordo solo due furono recuperate dal momento che le restanti due furono completamente distrutte nell’impatto.

Due anni più tardi, il 21 gennaio 1968, avvenne l’ultimo incidente con un B-52 armato con armi nucleari. A 11 chilometri a sud della Base aerea di Thule, in Groenlandia, precipitò un B-52 con quattro testate nucleari a bordo. Tre delle quattro bombe poterono essere almeno parzialmente recuperate mentre la quarta non venne mai ritrovata, anche se ne fu annunciato il ritrovamento undici anni più tardi per evitare allarmismi.

Quello del B-52 è solo uno dei tanti “incidenti” o “effetti collaterali” che sono accaduti nel secolo scorso e che stanno capitando in questi anni. Non è raro imbattersi in ordigni inesplosi della Seconda Guerra Mondiale, ancora oggi, ancora qui, nella pacifica Europa.

Ma da lasciare senza fiato è il fenomeno delle mine antiuomo. Esse sono ciò che resta, inevitabilmente, anche quando tutto sembra risolto, quando le parti in causa non si scannano più, quando la guerra, si dice, finisce.

Nessuno ha la certezza di quante siano e di dove si trovino le mine ancora interrate sul pianeta; tutti i dati forniti devono essere letti come stime più o meno attendibili.

In qualunque modo si decida di leggere questi numeri, la conclusione, però, è una sola: alla fine degli Anni ’90, nel mondo, si contava una nuova vittima da mina ogni 22 minuti. Nella seguente tabella, vediamo il numero di mine per quei soli Paesi in cui è stato possibile stimare un numero, ai quali vanno aggiunti una serie pressoché identica di altri Stati in cui la presenza di mine antiuomo è praticamente certa, senza essere riusciti a fare una stima. La fonte è l’ONU (1997), fatta eccezione per quei dati riportati con l’asterisco la cui fonte è la Commissione Internazionale della Croce Rossa (ICRC).

 

Per costruire una mina ci vogliono, mediamente, una ventina di euro. Per toglierne una, ne servono, invece, duecentocinquanta. È stato stimato che se oggi l’Afghanistan fosse libero da qualunque conflitto militare e sociale, ci vorrebbero quattromila anni di lavoro per sminarne il territorio.

La regolamentazione attorno alle mine antiuomo le classifiche come “armi preventive”: il nemico è avvisato del fatto che lì c’è un campo minato, quindi stia attento a non oltrepassare il confine se ci tiene alla vita. Famosissima la cosiddetta “zona smilitarizzata”, al confine tra Korea del Nord e Korea del Sud, coincidente con il 38° parallelo: si stima che ci siano circa un milione di mine nella zona. Piccolo problema: e quando i conflitti giungono al termine, chi le sposta quelle cose lì? Non scadono mica. E anche se fossero programmate a farlo, chi avrebbe il coraggio di andare a verificare se il timer ha funzionato bene?

Effetti collaterali. Così, ancora, li chiamano.

di Pietro Crippa

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Pietro Crippa - professore di Storia e Filosofia. È autore dei testi e degli approfondimenti tematici e storici

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