Eritrea: il dramma dei profughi negli occhi di Mehari
ESTERO, Interviste / / Mar 25, 2011

Nonostante i telegiornali siano ingolfati da presunti reati (in Italia si è giudicati colpevoli solo alla fine di un processo) del nostro Presidente del Consiglio, le “altre” ingiustizie nel mondo continuano a perpetrarsi nella colpevole indifferenza dell’informazione ufficiale.
Tra queste la terribile vicenda dei prigionieri del Sinai: uomini, donne, bambini tenuti in ostaggio dai beduini del deserto, ovvero da una mafia che si muove con le tende, ma che si avvale di tutti gli strumenti più moderni per estorcere denaro ai parenti degli ostaggi.
Per lo stesso stato eritreo sono soprattutto giovani “traditori”, persone che hanno lasciato clandestinamente la loro terra. Nella realtà si tratta di persone che non ambiscono tanto a un futuro migliore, bensì desiderano avere un futuro, diritto negato dalla dittatura di Afoworki, che ha ben saputo sfruttare il suo passato rivoluzionario per impedire che il suo popolo si ribellasse a lui: divieto di riunione, di professare la propria religione, di stampa ed espressione. Negazione del diritto all’istruzione che diventa indottrinamento.
Desbele Mehari è un eritreo e cittadino italiano che ha seguito la vicenda dei suoi fratelli da vicino, che ci ha spiegato i terribili dettagli che, ancora una volta, vedono indirettamente coinvolto lo Stato italiano e la sua sempre più evidente deriva razzista, dove la solidarietà non trova più spazio.
Desbele è uno dei pochi uomini di colore su cui si intravedono dei capelli bianchi, non sappiamo se dovuti ai suoi quasi sessant’anni o alle amare delusioni di chi assiste alla trasformazione dei suoi compagni di ideali in aguzzini e nemici.
La sua storia e la storia dell’Eritrea sono inscindibili, ed è impossibile scegliere nella sua vita pennellate di eventi per dipingerlo. Fatta questa premessa, ci limitiamo a riportare, per ora, la parte di intervista in cui parliamo dei prigionieri del Sinai…
In questi mesi abbiamo sentito parlare dei profughi eritrei, ma da quando è iniziata la fuga dall’Eritrea?
È soprattutto dal 2002 che la gente scappa dalla “grande prigione”, un’espressione che descrive bene l’Eritrea di oggi. Alla fine del conflitto Etiopia – Eritrea (2000) ci si aspettava finalmente un passaggio a un Paese democratico e civile, ma il governo presieduto dal Fronte di Liberazione ha invece imposto un regime assoluto, privando di ogni libertà i cittadini. I giovani scappano perché a 18 anni è obbligatorio fare una sorta di “servizio militare”, cioè passare un periodo indefinito di tempo in campi di addestramento militare, i “SAWA”, dove si è costretti a pesanti lavori: lavori stradali, costruzioni di dighe di case. Questi lavori “socialmente utili” vengono, però, spesso sostituiti con lavori il cui unico scopo è disciplinare i ragazzi. Per esempio una volta è stato chiesto ai ragazzi di abbattere con le zappe una collina vicino all’aeroporto. Motivo? Impediva la visuale dei piloti, cosa che è stata negata dagli stessi. C’è poi un esame di stato da sostenere per ottenere il diploma, ma pochissimi riescono a superarlo. Non esistono università, questo perché vogliono evitare che si costituisca un movimento politico contro il regime. Il Fronte sa che è proprio così che si formano i ribelli, visto che gli stessi attuali governatori si sono uniti, in passato, attraverso le università.
Perché viene scelta la via del Sinai come via di fuga?
Negli anni scorsi, la via prescelta era quella che, attraverso il Sudan, portava in Libia, per poi partire con le navi-carretta alla volta dell’Italia. L’Italia non ha mai rappresentato il Paese ideale dove rimanere, e tanti – tra quelli che non morivano nell’estenuante viaggio – si muovevano successivamente verso altri stati. Attualmente, all’indomani dell’accordo Libia-Italia, è troppo difficile e pericoloso tentare quella via e molti sono stati già respinti: per questo la maggior parte sceglie di tentare l’arrivo in Israele attraverso il Sudan e il Sinai. Tra i prigionieri del deserto vi è almeno un’ottantina di eritrei respinti dall’Italia.
Come funzionano questi “viaggi della speranza”?
Gli eritrei non possono lasciare il Paese, perciò si affidano a chi promette loro di aiutarli. I “rashaida” – beduini – sono organizzati in clan in diversi Stati: prendono gli Eritrei già dal Sudan e li portano verso il Sinai. Spesso sono gli stessi ufficiali eritrei che, in accordo con i beduini e dietro pagamento, agevolano l’uscita degli aspiranti profughi dal nostro Paese.
Quanto costa scappare dall’Eritrea?
Circa duemila – tremila dollari: l’equivalente di due anni di uno stipendio di un alto ufficiale militare. Spesso, anche per altri casi, si usa dire “ma se hanno tutti quei soldi per un viaggio, in fondo non stanno così male”. È così? I soldi arrivano dall’estero, dai parenti che vivono in altre parti del mondo (si calcola che il 15-20% degli Eritrei viva all’estero e che i soldi inviati dagli immigrati in patria rappresenti all’incirca il 20% del Pil, ndr fonte: Nigrizia.it). È questo che rende i prigionieri dei beduini ricattabili. Infatti, il primo gruppo di beduini vende letteralmente gli eritrei a un altro gruppo che di fatto li sequestrano, arrivando a chiedere alle famiglie dei prigionieri anche ottomila dollari.
Abbiamo un’immagine dei beduini, diciamo “pittoresca”: nomadi che vivono nel deserto, sorseggiando tè verde nelle loro tende e vivendo di pastorizia. Ma come fanno questi clan di beduini (non scadiamo nella generalizzazione, non tutti sono così) a gestire in modo efficace traffici internazionali?
Loro vivono sì nelle tende, ma si muovono con i Land Rover, sono molto “moderni”. Dispongono di “cellule” che risiedono nelle città e che ricevono i soldi dei familiari attraverso i servizi di Money Transfer. Con telefoni satellitari chiedono ai prigionieri di chiamare i parenti e dicono loro di raccontare le condizioni terribili in cui li tengono. Tutto ciò è disumano, fa venire i brividi. Nonostante la poca attenzione dell’opinione pubblica e dei mass media, numerosi gruppi si sono attivati per una costante e puntuale informazione a proposito della situazione dei prigionieri, tra questi il gruppo Per la liberazione dei prigionieri del Sinai.
Pensiamo di poter ben interpretare cosa direbbe a noi di ¡NO MÁS! Desbele: basta all’indifferenza e ad accordi di palazzo che, per lavarsi le mani, condannano centinaia di persone in fuga da un regime.
Se non sei parte della soluzione, sei parte del problema
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