MapofWorld.com ha recentemente proposto una imponente sintesi dove sono illustrati gli ultimi rilevamenti in fatto di industria bellica. Di seguito riportiamo la traduzione in italiano dei dati e i link per le fonti.
Gli Stati produttori di armi
Nel periodo successivo la Guerra fredda, l’industria bellica ha subito un crollo storico. Il primo decennio del XXI secolo, al contrario, ha visto una ri-esplosione nel commercio di armi in tutto il mondo.
Il totale delle spese militari del mondo nel 2012 è stato di 1.750 miliardi di dollari, corrispondente a quasi il 2,5% del PIL mondiale, in leggero calo rispetto al 2011, ma comunque in quantità superiore rispetto agli ultimi anni della Guerra fredda (fonte SIPRI, aprile 2013).
Lo Stato che l’anno passato ha speso più soldi per le armi sono gli USA con 682 miliardi di dollari, pari al 4,4% del PIL nazionale, seguono la Cina, con 166 miliardi di dollari (2% del PIL) e la Russia, con 90,7 miliardi di dollari (4,4%). L’Italia è all’undicesimo posto: 34 miliardi di dollari (25,7 miliardi di euro), pari all’1,7% del PIL.
È interessante notare che gli USA hanno diminuito del 6% le spese militari rispetto al 2011, pur aumentandole del 69% rispetto al 2001. Inoltre, i primi quattro paesi della lista, sono tutti membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Esatto, quelli che detengono il diritto di veto su tutte le proposte ivi discusse.
Le aziende produttrici di armi
Nella classifica delle aziende produttrici di armi spicca la olandese EADS, seguita dalle americane United Technologies e Lockheed Martin. Tra le aziende italiane vi è, al nono posto, Finmeccanica, produttrice di aerei, artiglieria, munizioni, apparecchi elettronici, missili, piccole armi.
Gli Stati importatori di armi
Tra i Paesi che importano armi, la classifica fa i seguenti nomi nelle prime tre posizioni: nel 2010, l’India ha importati armi per 3337 milioni di dollari, l’Arabia Saudita per 2580 milioni e la Corea del Sud per 1131 milioni.
L’industria delle armi e le elezioni americane
L’industria delle armi occupa un ruolo da protagonista anche nelle campagne elettorali statunitensi: nel 2004, per esempio, durante le campagne elettorali di George W. Bush e John Kerry, i due candidati erano i principali destinatari dei contributi da parte di molti degli individui legati all’industria delle armi. I due politici hanno ricevuto da loro rispettivamente 776 mila dollari e 399 mila dollari. L’industria delle armi in totale ha contribuito alla campagna per più di tredici milioni nel 2004. Nella corsa alle elezioni 2016, per il momento, i contributi donati dalle industrie delle armi arrivano a 3 milioni e 243 mila dollari, di cui quasi due milioni ai Repubblicani e quasi un milione e 300 mila ai Democratici. (fonte: Center for Responsive Politics)
L’ottimismo delle stime per i costi
E adesso veniamo a una cosa curiosa. Nel 2003, il costo totale della guerra in Iraq per gli USA era stato stimato a 4.4 trilioni (mille miliardi) di dollari. Per il solo 2012, il Governo USA aveva previsto una spesa pari a 1.38 trilioni per le guerra in Iraq e in Afghanistan. I costi post bellici inclusi le spese sanitarie per i veterani erano stati stimati 2,6 trilioni. Il Watson Institute della Brown University ha riportato che il costo reale ha ecceduto lo stimato di più di quattro volte.
La povertà mondiale: l’1% del PIL dei Paesi ricchi
L’ imponente budget militare si pone in contrasto con la povertà diffusa nel mondo. Secondo gli economisti della Goldman Sachs, la riduzione del debito nelle Nazioni più indebitate del mondo costerebbe tra mezzo miliardo e 7,5 miliardi di dollari. Un caccia B-2 Stealth costa all’US Air Force 1,5 miliardi di dollari: con i soldi spesi per la fabbricazione di 5 caccia si potrebbe sanare il debito di Paesi interi.
Il costo per mettere fine all’estrema povertà nel mondo è stimato a 175 miliardi all’anno per vent’anni. La somma sarebbe appena superiore al budget militare dei cinque Stati maggiormente coinvolti nella spesa militare per i prossimi tre anni al livello attuale. La stessa cifra è anche par a circa l’1% dei profitti sommati degli Stati più ricchi del mondo.
di Pietro Crippa
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