Ioane Teitiota è un cittadino di Kiribati, un paradiso naturale dove abitava fino a settimana scorsa, un arcipelago di trentatré isole a Nord-Est dell’Australia. Quella in cui viveva Ioane è a due metri sul livello del mare: la sua casa è stata travolta dalle acque, ma non a causa di tsunami occasionali, bensì per l’innalzamento del livello delle acque.
Ioane Teitiota non è la prima persona della storia a essere costretto ad abbandonare casa e lavoro per i mutamenti climatici, ma di certo è la prima a chiedere di veder riconosciuto a livello internazionale un nuovo status, quello di “rifugiato climatico”.
Come capita spesso, è questo che fa notizia: il bisognoso non chiede solo aiuto, esige giustizia, per sé e per gli altri.
Oggi non esiste una legge o un qualunque accordo internazionale o locale che tuteli i diritti di persone con questo tipo di necessità: la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati prevede che possa richiedere lo status di rifugiato chiunque si trovi “nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato” definizione che non lascia spazio alle cause ambientali come fattore di spinta degli spostamenti di popolazione. Nel caso in cui la richiesta di Ioane fosse esaudita, Michael Kidd, l’avvocato del rifugiato (?), è convinto che si potrà parlare “dell’inizio di una nuova era giuridica”.
Questi i motivi per cui questa storia farà ancora parlare di sé (almeno per un po’, finché non si troverà qualcosa di più cool da trasmettere nel TG delle 20). Tuttavia, la questione a cui essa ci sottopone, se, da una parte, è fin troppo pubblicizzata, dall’altra non sempre lo è nei modi corretti: il riscaldamento globale.
Il caso di Ioane riguarda l’innalzamento del livello del mare, senza dubbio un problema su cui riflettere (pensiamo alla quantità di agglomerati urbani, di grandi come di piccole dimensioni, eretti nella storia lungo le coste dei cinque continenti); di certo, un altro leit motiv del global warming (lo dice la parola stessa) è l’aumento della temperatura media mondiale, e anche questo va bene.
Ma il dato più drammatico, quello che, di fatto, pur essendo correlato a questi rappresenta un punto di non ritorno, è la diminuzione della quantità di acqua potabile sul pianeta: solo il 2,5% delle acque terrestri è potabile e il 90% di esse è custodita nei ghiacciai montani e ai poli. Il cronico scioglimento di questi genera una perdita irreversibile di acqua potabile nel mondo, proprio quel mondo in cui già più di un miliardo di persone non ne hanno accesso; proprio quel mondo in cui ogni anno la popolazione umana aumenta.
Se vogliamo dirla tutta, il caso di Ioane è anche oggetto di dubbi da parte di diversi esperti che considerano questi appelli solo come terrorismo ambientalista utile a questi microgoverni (Kiribati, Maldive, ecc…) per ricevere attenzione mediatica e fondi dalle organizzazioni internazionali. Ma non è questo il punto. Se non qui, il problema comunque esiste ed è un problema che, presto o tardi, sarà di tutti.
di Pietro Crippa
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