“Lo scoprire consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel pensare ciò che nessuno ha pensato”
Albert Szent-Györgyi
La scoperta di una nuova isola è qualcosa di sensazionale. In un mondo che ruota placido sotto l’occhio costante di migliaia di satelliti orbitanti, poter dire di essere stato il primo a vedere un lembo di terra sconosciuto è, da certi punti di vista, ancora più rivoluzionario di ciò che fece Colombo più di cinquecento anni fa.
Due settimane fa, l’equipaggio di un elicottero russo ha avvistato una nuova isola nel Nord della Siberia. Nessun satellite, né rilevazione terrestre o marittima la aveva scorta prima. Con buona pace di Google maps. A onor del vero, va detto che questa “nuova arrivata” pare esista solo da una cinquantina d’anni, prima riposava sotto il livello del mare, celata agli sguardi orbitanti.
Ma al di là di ogni approfondimento scientifico, ciò che conta è che la scoperta di Yaya fa ritornare qui, sulla Terra, la speranza della scoperta, quella che spinge a cimentarsi in avventure, nella consapevolezza che ancora molto resta da vedere, da fare, da scrivere, da dire.

Non che di novità non ce ne siano state negli ultimi tempi. Anzi. La quantità dei mezzi unita a quella delle persone che li usano garantisce, ogni anno, un numero di invenzioni maggiore rispetto a quello precedente. E non sto parlando solo di medicinali o ritrovati elettronici: ogni anno si scrivono sempre più libri, si ritrovano più reperti, si elaborano più filosofie, si compongono più motivi musicali, si girano più pellicole cinematografiche.
A fronte di ciò, c’è chi dice che tutto è già stato detto, tutto è già stato fatto e che possiamo solo ripeterci. Forse è così. Forse la frequenza della novità altro non è che un modo per mascherare la sua perfetta inutilità, inesteticità e, in particolar modo, la pericolosità alla quale siamo esposti, quella dell’aver bisogno di avere bisogni, tanto da crearcene di nuovi ogni volta che viene messo in commercio qualcosa di nuovo.
Tuttavia, per una volta voglio essere un ingenuo ottimista. Voglio vedere in Yaya il segno che non è mai detta l’ultima parola e che nel mare dell’ovvietà e della ripetizione, ci sia sempre un’isola in attesa di essere portata alla luce laddove prima, erroneamente, eravamo sicuri non ci fosse nulla.
di Pietro Crippa
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