Butto giù queste quattro righe fintanto che le memorie del viaggio sono ancora fresche in qualche cassetto della mia testa.
Può sembrare un paradosso ma, dopo sette mesi da “cittadino” etiope, ho vissuto due settimane da turista, a girare zaino in spalla una buona fetta di questo paese. Impressioni? Contrastanti, a dire poco.
Da un lato, guardo indietro e quasi non riesco a credere al giro che, assieme al mio amico Nick, sono riuscito percorrere in appena 15 giorni. Partendo dalla Great Ethiopian Run, in vista della quale da due mesi mi alzavo all’alba per allenarmi con capre e cammelli: uno spettacolo umano incredibile, con più partecipanti che alla maratona di New York. Dal nostalgico ritorno a Shashamane, dove tutti mi hanno accolto come se non fossi mai andato via, alle spericolate arrampicate per le chiese tigrine, passando le cascate del Nilo d Bahar Dar, i magnifici castelli di Gondar, la massa festante per la festa di Santa Maria ad Axum, e le meraviglie naturali della Dancalia. Ci abbuffati di Tholo* ad Adigrat, scottati sotto il sole rovente di Dallol, sbronzati (no dai neanche lontanamente) con qualunque tipo di birra locale. Abbiamo fatto foto e ci hanno chiesto di farci fotografare (ah, essere un ferenji). Non si può proprio dire che ci siam fatti mancare qualcosa.
Tuttavia, di parte di questo qualcosa ne avrei fatto volentieri a meno.
Della massa di parassiti che associa il colore bianco a turista babbo e sfondato di soldi, che ti ronza intorno ventiquattr’ore al giorno nella speranza costante di succhiarti denaro: fermi uno per strada a chiedergli un’indicazione stradale? Paga. Hai una sete pazzesca nel deserto e vuoi berti una bibita? Sei un bianco, paga il doppio. A volte il triplo. Un tizio ti si incolla durante le arrampicate senza che tu lo abbia richiesto? Paga “il disturbo” quando scendi (col cavolo, a questo giro l’ho mandato dove non batte il sole). È spossante e fastidioso, soprattutto quando in questo paese ci vivi ormai da un po’ e, come cerchi di spiegare in amarico e con la massima diplomazia possibile a tutti i bajajari che ti danno un passaggio, più o meno sai come funzionano le cose qui, non sono un bancomat, è inutile che mi spari un prezzo dieci volte maggiorato.
Ma questo modo di fare e alla fine di essere di parte di questo popolo (non tutti, sia ben chiaro) nei confronti degli occidentali non è che la naturale conseguenza del nostro stesso comportamento. Il Gran Capo mi scampi dal cadere in discorsi banali e generalisti ma, in queste settimane, ho toccato con mano anche le cause di tutto ciò: turisti che impilano bambini come belle bamboline per sparaflesharli rigorosamente a turno con le loro reflex da migliaia di euro; turisti che elargiscono mance improponibili a guide e autisti in dei tour organizzati che hanno già dei prezzi da rapina; turisti che, come sacchi di patate, si fanno mollare e riprendere nel luogo vattelapesca, vedono quanto c’è da vedere, e ripartono blindati nelle loro jeep affittate.
Dopo quanto visto non mi sento di escludere che la metà della gente che viene in vacanza in Etiopia riparta senza aver mai provato l’injera.
Chiudo rendendovi parte attiva della conversazione. Aiutatemi a scegliere il momento più triste tra i due che sto per proporvi, ne ho scremati molti altri ma questi mi paiono egualmente ributtanti:
- Peacecorps americani che, dopo aver lavorato due anni qui (e imparato l’amarico in maniera ammirevole – non si poteva proprio dire non fossero integrati), sul confine eritreo** posano in mezzo ai militari di scorta sbandierando allegramente un Kalashnikov;
- La mia vicina di posto sulla jeep in Dancalia – una signora tedesca di mezz’età – che, in uno dei tanti assedi di minori urlanti “HI! HI! HI!”, spara foto a mitraglia e poi, sfoggiando un sorriso falso come una moneta da tre euro, alzando il finestrino fa loro un macabro verso: “Hi, hi…and good bye”.
Questo è tutto. Forse non sono state proprio quattro righe, ma non mi sono nemmeno dilungato troppo. Su questo pullman affollato che mi riporta a Telalak, viaggio verso l’ultima parte del mio Servizio Civile. Mi chiedo quante sorprese abbia ancora in serbo per me questo incredibile paese.








*Nota golosa: lo so, le note di argomento culinario la stanno facendo da padrone sin dall’inizio di questa rubrica, ma non posso farci nulla se la cucina Etiope è tanto varia e ricca di sorprese. L’ultima in ordine di tempo sono questi gnocchi di farina di frumento, specialità del nord del Tigray, preparati all’istante in un cerimonia fascinosa come quella del caffè, che si mangiano infilzandoli su delle bacchette in stile cinese per poi essere intinti in una salsa di yogurt e un sugo di carne. Inutile dirlo, una vera delizia.
**Nota storica: le vicende tra Etiopia e Eritrea percorrono un arco di tempo quasi secolare e riassumerle qui in poche righe non renderebbe loro giustizia, oltre al fatto che il sottoscritto non possiede nemmeno lontanamente la competenza in materia per poterlo fare. Vi basti sapere che è un rapporto tormentoso che da decenni si trascina tra sanguinose rappresaglie e periodi di pace carichi di tensione, come nella situazione attuale. Il confine è chiaramente chiuso e l’estremo Nord del paese è talmente pieno di militari da sembrare una caserma a cielo aperto.
di Marco Pozzoli
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