Tornato brevemente ad Addis in cerca di serbatoi, grondaie e filtri a cartuccia, ho l’occasione (e soprattutto la connessione) per buttare giù qualcosa su questi primi trenta giorni a Telalak, villaggio polveroso nel deserto dell’Afar.
La corrente elettrica se n’è andata sei mesi fa, non si sa bene il motivo. Pazienza.
Con l’acqua non va molto meglio, il pozzo profondo viene attivato solo poche ore a settimana, la benzina costa. Pazienza.
Quattro giorni fa anche la rete telefonica è saltata, sempre per mancanza di carburante per il generatore dell’antenna. Sempre pazienza.
Nonostante possa averne le sembianze, il mio non è un lamento. Sapevo che la vita qui sarebbe stata dura nella sua quotidianità, o almeno certo più che a Shashamane, e, in fin dei conti, ci si abitua abbastanza in fretta. Per lavarsi ci sono i secchi, per la luce le candele, addirittura un frigo cui bastano un paio d’ore di generatore elettrico al giorno per mantenere “fresche” le preziose vivande portate dall’Italia. Dormire con la zanzariera addosso nonostante il caldo devastante non è il massimo ma, appunto, pazienza.
Ciò che non capisco, e onestamente non sopporto, è il totale menefreghismo dei locali nei confronti di queste cose. Di come sembri che la qualità della vita loro (e dei loro figli) non sia di alcuna importanza, anche quando basterebbe tanto così a cambiare le cose. E la ragione è semplice.
It’s all about Chat*. Riassumeva molto propriamente Negusse, il mio buon driver. Ed è vero, purtroppo. Qui, gli adulti, masticano tutti. All’una di pomeriggio, quando il sole ti pesta in testa come un martello, gli uomini finiscono la loro consueta razione di shirou o messerwat, si riuniscono nella piazzetta del paese, e aspettano.
Aspettano il camion del Chat.
Comprano (a caro prezzo, per le tasche di un etiope), la loro razione quotidiana di foglie del paradiso, e poi basta, la giornata finisce così. I cervelli si spengono. E dovunque ti volti è un continuo chomp chomp di gente con le labbra verdi e le iridi rosse, che via via che il sole cala verso l’orizzonte tende a estraniarsi, diventando spesso irascibile ai limiti della violenza. Questo è l’effetto del chat: nient’altro che un blando eccitante la cui fulminante diffusione negli ultimi anni sta segando le gambe allo sviluppo del paese.
Perdonatemi, non era mia intenzione dilungarmi tanto su questo punto, ma prima o poi un approfondimento su questa piaga nazionale andava fatto.
Varrebbe la pena fare qualche considerazione anche di tipo lavorativo, quantomeno per darvi un’idea dei progetti (tre) che stanno iniziando contemporaneamente qui. La verità è che, ad oggi, vista l’assenza di buona parte del personale e la quantità indecente di tempo perso in meeting di consorzio con le altre ONG partners (non siamo gli unici fautori del nostro destino, io ci metto un purtroppo), pure io non ci ho ancora capito molto, riservandomi dunque di spiegarvi meglio al prossimo appuntamento con questa rubrica. Vi basti sapere che, al momento, mi sto occupando del dimensionamento di cinque sistemi di raccolta dell’acqua piovana in altrettante scuole o ambulatori delle campagne circostanti (da cui avrete intuito l’utilità dei pezzi citati all’inizio dell’articolo). Vi basti anche sapere che dietro a questa presentazione carica di solidarietà e sorrisi plastici formato UNICEF ci sarebbero, in realtà, molti grigi da affrontare.
Ma forse questa è una considerazione per un altro tempo, per un altro luogo.




*Nota stupefacente: il Chat, o Khat, è una pianta le cui foglie, dal gusto amarissimo, danno una temporanea sensazione di euforia e benessere a chi le mastica (per ore e ore e ore). Divenuta ormai il primo bene di esportazione dell’Etiopia – superato anche il caffè – ha effetti devastanti sulle potenzialità lavorative del suo popolo.
di Marco Pozzoli
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