Una vita al di qua del muro: quattro chiacchiere con Barbara Ludwig
ESTERO, Interviste / / Mar 17, 2014
Vivere all’ombra di un muro di divisione. Oggi è possibile in almeno dieci località diverse nel nostro pianeta. Il più famoso della Storia, tuttavia, resta il Berliner Mauer: 42 km di cemento che divisero dal 1961 al 1989 la capitale tedesca tra Est e Ovest. Abbiamo incontrato una signora che ha vissuto gran parte della sua vita nell’Est e le abbiamo fatto qualche domanda sulla vita quotidiana nella Repubblica Democratica Tedesca, la parte di Germania controllata dai Sovietici.
Si presenti, per favore.
Mi chiamo Barbara Ludwig e sono nata a Dresda nel 1958.
Da quanto tempo vive a Berlino?
La mia famiglia apparteneva alla classe media, ma a quei tempi non era raro che i bambini aiutassero economicamente i genitori appena ne avessero la possibilità: a dodici anni comincia a guadagnare qualche soldo lavorando in locali dove sbucciavo patate e cipolle. Grazie a questo, riuscii a trasferirmi a Berlino Est per gli studi universitari e qui cominciai a collaborare con testate giornalistiche locali.
Mi sono sposata e ho passato del tempo nella politica locale. Oggi, faccio l’insegnante in una scuola media di Berlino e affitto due camere di questa casa per arrotondare.
Quale fu il suo passato nella politica berlinese?
Nel 1990 ho iniziato a militare per la Sinistra nel PDS (l’evoluzione del SED), il partito di opposizione all’SPD. Partecipavo alle sedute del distretto di Hohenschönhausen a Berlino. Gorbačëv era il nostro il punto di riferimento, anche se ci sono stati molti cambiamenti in Russia e numerosi soci del PDS presero le distanze dalla politica, generando una spaccatura all’interno del PDS.
Qual era il suo ruolo all’interno del Partito?
Io mi occupavo soprattutto di ambiente. In questa zona, per esempio, c’era un ambiente che, dal punto di vista ecologico, era praticamente allo stato naturale: alcuni volevano proteggerlo, conservandolo così com’era; altri volevano farci un parco. Il mio compito era trovare il modo di far dialogare le parti. Poi, dopo l’unificazione, ci furono tutt’altri problemi, in particolar modo di inquinamento. Le persone buttavano dalle finestre i rifiuti. Con l’avvento del capitalismo, i prodotti si moltiplicarono e, con essi, i rifiuti.
Prima, ha fatto un rapido esempio delle differenze che potevano esserci tra il vivere a Berlino durante la DDR e il viverci dopo. Qual è la differenza più marcata che riesce a ricordare?
Durante la DDR si dava moltissima importanza all’istruzione, la scuola funzionava bene e l’educazione diffusa. Dopo la laurea sapevo già dove andare a lavorare ed ebbi subito un posto di lavoro: posso dire che per i più era così. Lo stato si preoccupava molto affinché tutti avessero un posto di lavoro e a coloro che non lo avevano si trovavano dei compiti. Era un bene per tutti perché tutti avevano uno stipendio e si sentivano utili. A un certo punto, però, ciò si dimostrò controproducente per l’economia perché non si avevano i fondi sufficienti per garantire gli stipendi e questo si ripercosse alla lunga sui fondi statali. In ogni caso, lo si è fatto fino alla fine. Le donne avevano tutte un lavoro. E potevi permetterti un tuo appartamento, la base esistenziale era sicura, non come oggi che ci si sente abbandonati. Con l’avvento del capitalismo io persi il mio posto di lavoro: a certe persone non piaceva avere una donna proprio pari o addirittura superiore e dovetti cercarne un altro. Quando i miei tre figli, alla fine degli anni Novanta, andarono a studiare, io non riuscivo a mantenere la casa e questo non sarebbe successo durante il socialismo.
Una differenza economica che ha effetto sulla sovrastruttura sociale.
Certo. Dal punto di vista puramente economico, la cosa più evidente nell’Est era l’assenza di consumismo. Mancavano i frutti del Sud: si doveva fare una coda molto lunga e le banane e le arance erano rarissime. C’erano sempre mele e cavolo bianco. Ad ogni modo, le cose basilari c’erano sempre ed erano economiche e abbordabili.
È vero che spesso la popolazione pativa la fame per assenza di beni di base come il pane?
No. Il pane lo abbiamo sempre avuto. Forse in qualche anno passato, ma dalla metà degli Anni Settanta in poi non ricordo di avere mai avuti problemi di questo tipo.
Veniamo al Muro. Avete mai pensato di scappare?
La situazione era molto problematica. Mia madre era una direttrice di un asilo. Il fratello di mia madre abitava a Berlino Ovest (Goslar) e avevo anche un nonno che era a Vienna (io non l’ho mai conosciuto). Loro facilmente sarebbero potuti venire da noi, ma mia madre era come una “portatrice di segreti” e non poteva andare a trovare il fratello. Io l’ho visto due volte ed era molto complicato trovarsi. Questo era un grande problema per famiglie che si sono separate, anche se sotto Gorbačëv questa cosa è migliorata.
Tuttavia, noi non abbiamo mai desiderato davvero andar via. Ogni volta che si parla di persone che si lanciavano dalle finestre o tentavano di attraversare la Striscia della Morte [la parte tra i due muri paralleli che circondavano la città, ndr] ci si dovrebbe chiedere anche quante persone non volevano abbandonare Berlino Est. È vero non si poteva andare dall’altra parte per non vedere lo standard di vita che c’era di là, però c’è una cosa da dire: il non poter viaggiare era pesante da sostenere, ma molte persone non avrebbero comunque lasciato la DDR. Qui erano le loro radici. Se si fossero allontanate, lo avrebbero fatto per tornare.
Ha mai avuto rapporti con la STASI?
Eccome! [ride]Dovete sapere che mio marito ha studiato energia nucleare in Russia ed era molto bravo. Quando tornò non ha potuto svolgere il suo lavoro perché la STASI lo voleva occupare per i suoi servizi. Lui accettò… anzi, forse venne costretto a farlo, non l’ho mai saputo: era molto taciturno e c’erano cose di cui, mi diceva, non poteva parlare. Una volta, ci trovavamo in vacanza e lui era stato chiamato per sorvegliare un tale personaggio e in quei momenti non poteva dirmi dove si trovava. Questi casi di mancata comunicazione tra noi furono un grande rimorso per lui. Anche la nostra relazione era fortemente influenzata dalla situazione vigente all’epoca: lui venne costretto, per esempio, a sposarmi non appena mi conobbe perché nel momento in cui un membro della STASI veniva a contatto con una donna, bisognava cercare di creare dei rapporti molto chiari e trasparenti perché si volevano evitare dei collegamenti con l’Ovest. Un’altra cosa particolare è che per avere un’automobile bisognava fare domanda 11 anni prima: se la facevi appena compiuti 18, la avevi a 30. Se stavi alla STASI i tempi si accorciavano e avevi anche più soldi.
Quindi anche lei, in quanto compagna prima, e moglie poi, di una persone della STASI era costretta a sottostare a certe regole?
Io non ho accettato questo ricatto a sposarlo subito e, parlando con la STASI ho esposto le mie ragioni: tenetti botta per qualche tempo, ma poi ci sposammo. Un’altra cosa: non sopportavo il fatto che io non avrei potuto più avere contatti con alcune delle persone che studiavano nella mia università. I criteri di scelta mi sono tuttora ignoti: con studenti indiani non potevo parlare, con quelli provenienti dalla mongolia sì e così per tutte le nazionalità.
Come potevano controllare ciò?
Senza internet si aveva solo il telefono, anzi, non tutti ce l’avevano. Io dovevo andare da un vicino che ascoltava le mie chiamate e aveva contatti con la STASI. Per esempio, ai tempi dell’università, nel nostro corso sapevamo che c’erano almeno tre persone che si fingevano studenti e dovevano ascoltare e fare la spia nel caso venissero dette cose contro la STASI.
Come giudica queste limitazioni alla libertà personale?
Era molto strano sottostare a tutto ciò. Quando, alla fine degli Anni ’80, poco prima della caduta del Muro volli avvicinarmi al SED, scoprii che c’erano delle persone che avevano registrato tutte le mie critiche alla STASI. Per poter far parte del partito dovevo giustificare il mio desiderio davanti a 180 persone che verificavano che in me non ci fossero eccessivi elementi critici con gli ideali della STASI. Il divieto di viaggiare era un’altra forte limitazione, anche se col tempo diminuì di intensità. Ciononostante, tengo a precisare che io non avevo problemi con la DDR. Le limitazioni che imponeva le reputavo e le reputo oggi del tutto proporzionali a quelle di qualunque stato, anche alla Germania attuale.
Cosa prova quando pensa alla sua vita nella DDR?
Nonostante queste ultime cose che ho detto, quando ripenso alla DDR provo una sensazione di pienezza. È stato un periodo molto intenso della mia vita perché ero attiva in tanti campi e lo sento come un tempo spensierato, ma anche ordinato. Sono consapevole che queste sono prospettive personali, ma è quello che provo.
Come vede il passaggio dalla situazione passata a quella di oggi?
La mia felicità è rimasta più o meno uguale, anche se le cose che la determinano sono cambiate quasi tutte, così come quelle che mi preoccupano. Anche oggi ci sono tante sfide e tante cose non sono risolvibili. Cosa mi manca oggi? Persone come voi. Che hanno un buon orizzonte mentale e un buon intelletto con cui posso parlare. Non ho tempo per costruirmi contatti perché devo lavorare tantissimo. Questa mia mancanza di poter avere contatti è causata dal tanto lavoro, non potrei finanziare i miei figli e non potrei permettermi questa casa, nella quale vivo con due ragazzine adottate che sono state salvate da un padre violento.
Perché è questa la contraddizione dei tempi contemporanei: prima non si poteva viaggiare, oggi sì, ma oggi non abbiamo i soldi per viaggiare: che cosa è meglio? [si commuove] Per me non era neppure importante viaggiare perché andava tutto bene, avevo molte persone, amici, cose, attività… Oggi i miei figli sono adulti e il mio obiettivo è dare un futuro alle ragazze che ho adottato, che possano avere una vita felice, che possano dimenticarsi dei propri genitori alcolizzati, ma ciò è difficilissimo e l’unico modo per assicurarmi che ciò avvenga è solo questione di soldi e ciò è molto sconfortante.
¡NO MÁS!, il nome della mia associazione, è un’espressione spagnola che significa “basta”, “mai più”. Lei per cosa urlereste ¡NO MÁS! ?
Io non direi “basta”. Direi che ogni tempo ha il suo perché. Per ognuno dovrebbero essere a disposizione le basi per costruirsi una vita, per essere utile in base alle proprie capacità. E la cosa più importante è che ognuno deve avere la sensazione di avere un’identità e che venga trattato con dignità, che ognuno abbia un diritto di esserci nella società. Che si possano fare delle cose per le quali ci si possa sentire valorizzati.
Io ho lottato moltissimo e lo sto facendo ancora adesso, ma in sedici anni di politica ho imparato anche che quando una cosa richiede troppa fatica, forse significa che il tempo non era buono per queste cose. Se una strada non c’è ancora, bisogna anche riconoscere che magari c’è un altro modo o un altro tempo per arrivare alla meta. Soprattutto, bisogna avere la fiducia che anche altre persone possono fare le cose che tu metti in secondo piano, pur forse non facendole nel modo in cui tu le avresti fatte.
di Pietro Crippa
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