Prendo in prestito il titolo di un celebre romanzo di Stieg Larsson per introdurre una piccola discussione su un argomento da sempre importante per il sito, la condizione delle donne, in occasione della spettacolare campagna appena lanciata da UN Women.
La settimana scorsa, la sezione delle Nazioni Unite dedicata all’eguaglianza tra generi ha inaugurato una campagna molto impattante a livello visivo, basata sull’autofill della home page di Google, che copre la bocca di alcune donne con gli aberranti luoghi comuni che appaiono su di esse digitando parole come Women should (“Le donne dovrebbero”), Women cannot (“Le donne non devono”), Women needs to (Le donne hanno bisogno di”).
Il mondo che si scopre dai suggerimenti del motore di ricerca più grande del mondo (chiaramente incolpevole in questo caso), è un mondo meschino, che nel 2013 riesce a essere, anche se non più sulla carta, ancora profondamente sessista (per non dire misogino) nel profondo del cuore.
Le leggi che regolano le indicizzazioni di Google, a differenza di quelle che regolano (almeno ufficialmente) quasi tutti gli stati del pianeta, ci dicono che le donne dovrebbero essere schiave, stare in cucina, conoscere il loro posto. Che non potrebbero votare, nè lavorare. Che devono stare zitte.
Letto così, d’un fiato, può apparire incredibile, a meno di trovarsi in Iran (dove, per inciso, dall’anno scorso le donne non possono più frequentare buona parte dei corsi universitari), o in qualche altro paese radicalmente islamista. In realtà, se ogni 24 Novembre si celebra la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, un motivo probabilmente ci sarà. Probabilmente, nella vita reale, spesso gli autofill di Google si spingono un passo oltre.
Anche i numeri, in questo senso, non sono molto incoraggianti. Le donne faticano di più degli uomini a trovare lavoro, e soprattutto poi a fare carriera. L’ISTAT ad esempio ci dice che, in Italia, circa il 60% dei laureati è di sesso femminile, e che i voti delle donne sono mediamente più brillanti. Però, restando in ambito universitario, soltanto un terzo dei ricercatori appartiene al gentil sesso, e passando ai professori ordinari la percentuale crolla a un decimo.
A parità di ruolo, lo stipendio di una donna varia, a seconda del tipo di lavoro, tra il 70% e il 90% del corrispettivo maschile.
Circa il 10% delle donne che rientrano da una maternità vengono licenziate o costrette a dimettersi.
Questi sono solo alcuni della moltissimi dati che si potrebbero snocciolare a sostegno della tesi sull’effettiva ineguaglianza di genere che tutt’oggi esiste nel mondo del lavoro. È anche vero però che, a mio parere, l’imposizione forzosa di un sistema “alla pari” tramite l’introduzione delle quote rosa – in qualunque ambito – è altrettanto sbagliata: un simile provvedimento non protegge il genere femminile, ma lo umilia soltanto, manifestandone la propria incapacità a difendersi, come per le specie in via d’estinzione.
Come la pensa “l’autofill di Google”.
di Marco Pozzoli
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