ARTICOLO 3
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.
Cosa c’è di peggio di una guerra? Una guerra dimenticata, come quella che si combatte in Siria. Anche prima della crisi irachena con la proclamazione del Califfato Islamico, la triennale guerra civile siriana era una questione per gente consapevole e impegnata. Nel frattempo, la lotta iracheno-curdo-americana agli jihadisti della nazione vicina ha largamente messo in ombra gli sviluppi della situazione siriana. Eppure la Siria, soprattutto la città di Raqqa, è stata una sorta di incubatrice per lo Stato Islamico (Is), formatosi in Iraq come propaggine di al-Qaida. Per Assad, fin dall’inizio, tutte le ribellioni erano solo “terroristi” che lui, il chirurgo, avrebbe dovuto rimuovere dal corpo del popolo siriano con una sanuguinosa operazione. Più i combattenti fondamentalisti si mostravano come pericolosi tagliagole, più la situazione di tutti gli altri nemici di Assad peggiorava.
È impossibile dimostrare quanto lontano si spinga la complicità tra il regime siriano e lo Stato Islamico. Senza dubbio, però, ha portato ad un drastico indebolimento di tutti gli altri nemici del regime di Assad. Ad esempio, Deir al-Sur, nella Siria nordorientale, città di importanza strategica sull’Eufrate, è stata a lungo divisa in tre, racconta Elias Perabo, cofondatore dell’organizzazione Adopt-a-Revolution. Quasi per metà era in mano ai combattenti dell’Esercito Libero Siriano e del Fronte Islamico. L’altra metà era in mano al regime, mentre lo Stato Islamico ne controllava solo una frazione. “Oggi però il Libero Esercito Siriano non esiste quasi più. Stato Islamico e regime si spartiscono la città tra di loro”.
Ad Aleppo gli sviluppi più gravi
Una resistenza politica non armata, che sostiene l’idea di una Siria unita, libera e democratica: presente, ma solo in minime tracce. “I nostri interlocutori sanno che in questo conflitto non c’è più niente da guadagnare per loro. Localmente però hanno molto da perdere”, afferma Perabo. Per questo la sua organizzazione, continua Perabo, è passata a sostenere iniziative di tipo civile: una biblioteca a Duma, vicino a Damasco; un centro per il trattamento dei traumi ad Afrin, vicino ad Aleppo; corsi di pronto soccorso; servizi di babysitting. Ma anche queste strutture vengono minacciate, soprattutto dagli jihadisti.
Per esempio, a Menbedsch, vicino ad Aleppo, un paese di 150mila abitanti, alcune persone coraggiose hanno allestito un centro per il sostegno delle donne e la formazione specialistica degli insegnanti. Gli educatori, afferma Perabo, devono imparare a diventare i mediatori di una società democratica e pluralistica. Non è cosa per combattenti fondamentalisti: dopo essersi dovuti ritirare una volta, sono tornati indietro e hanno minacciato gli attivisti con un dettagliato catalogo di punizioni. Gli attivisti sono fuggiti e il centro ha dovuto chiudere a fine gennaio. A Menbedsch hanno protestato contro lo Stato Islamico con uno sciopero generale. Un barlume di speranza.
Mentre il mondo accorre in aiuto dei curdi in Iraq, continua Perabo, per la Siria, dopo il fallimento dei colloqui di Ginevra, non c’è nemmeno stato il tentativo di sviluppare una strategia politica, solo la speranza che il conflitto venga arginato. Inoltre, se in Iraq l’aviazione statunitense lotta a fianco dei curdi contro le milizie dell’Is, per lo più arabi sunniti, in Siria i sunniti costituiscono la maggioranza dei nemici del regime [la famiglia Assad appartiene a una minoranza sciita, NdT]. Così, il salvataggio degli Yazidi curdi in Iraq rafforza nei sunniti l’impressione di “non valere niente”. Questo, secondo Perabo, è proprio il tipo di situazione sfruttata gli estremisti sunniti dell’Is: in alcuni luoghi la popolazione li festeggia come liberatori. Solo più tardi, quando riconoscono il vero carattere dei fondamentalisti islamici, molti se ne allontanano. “Non potremo far rinascere la rivoluzione”.
Ad Aleppo si delinea ora uno dei più gravi tra gli sviluppi militari dei mesi passati. Per tre anni, ad Aleppo, ha lottato una mescolanza eterogenea di unità del Libero Esercito Siriano, del Fronte Islamico e del Fronte al-Nusra, vicino ad al-Qaeda, causando orribili devastazioni con le bombe artigianali e rendendo inabitabile gran parte della città. Sono seguite offensive di terra, che hanno costretto i combattenti nemici di Assad alla ritirata nel nord della città. Nel 2012 Aleppo doveva essere l’inizio del trionfo dei ribelli. Ma hanno sottovalutato il fatto che molti cittadini del centro mercantile avessero avuto meno problemi con il regime che con la ribellione. La popolazione di Aleppo, quattro volte più grande di Homs, è ormai ridotta ad una frazione dei suoi tre milioni originari.
La più grande minaccia per Aleppo proviene ora dagli jihadisti. Alcuni giorni fa le milizie dell’Is sono avanzate su Aleppo. Hanno conquistato sei villaggi a nord della città e si trovano con tutta probabilità a nemmeno 50 km di distanza. I comandanti della ribellione hanno fatto incetta di generi di prima necessità – lenticchie, riso, omogeneizzati per i bambini rimasti – per impedire che Aleppo muoia di fame come è successo ai nemici di Assad a Homs. “Stiamo per perdere Aleppo, e nessuno fa niente”, si è lamentato un comandante del Libero Esercito Siriano. “Se succederà, non potremo far rivivere la rivoluzione. Stiamo perdendo i moderati in Siria”. I sopravvissuti dell’assedio di Homs, debilitati, esausti e senza munizioni, sono stati un bottino facile per gli jihadisti: li hanno costretti a entrare nelle loro fila o a morire.
Nel frattempo sembra che le enormi conquiste territoriali degli jihadisti siano diventate nefaste anche per il regime di Assad: dopo la marcia trionfale in Iraq hanno attaccato più spesso le basi militari anche in Siria, sequestrando o massacrando i soldati. Per questo da un paio di settimane l’aviazione siriana bombarda lo Stato Islamico, e per la prima volta lo fa con decisione. Alla lunga, è questa l’impressione, Assad vuole dimostrare che lui e l’America combattono dalla stessa parte contro lo Stato Islamico. La domanda è se l’America ci creda.
di Sonja Zekri, Süddeutsche Zeitung
traduzione di Elisa Proserpio
immagine (da Wikipedia): Aleppo distrutta, febbraio 2014
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